L’Aristosseno racconta e vince!

Ancora un successo per il Liceo Aristosseno nell’ambito della scrittura creativa. Le buone notizie giungono

Ancora un successo per il Liceo Aristosseno nell’ambito della scrittura creativa. Le buone notizie giungono questa volta dal Concorso di Scrittura creativa in prosa Una rosa per un racconto 2020, e rivolto a studenti, genitori e docenti della scuola ionica. La prestigiosa competizione, giunta
ormai alla sua XIII edizione, ha registrato quest’anno la partecipazione di diciotto elaborati, tutti prodotti da giovanissimi alunni dei Licei “Archita” e “Aristosseno”.
La Giuria di qualità ha infine individuato i vincitori nei racconti Il cantante senza voce di Elena Del Monaco della classe I H dell’Aristosseno (primo classificato)  e – secondi a pari merito – i racconti  La ragazza che applaudiva nel modo sbagliato (Arianna De Pasquale, IV C “Aristosseno”) e Un pomeriggio d’autunno (Fabiana Ciaccia 2 ASP “Archita”).
Seguono gli elaborati vincitori.

Il cantante senza voce, di E. Del Monaco

L’acqua canta mentre le parole scorrono, nella doccia, un piccolo concerto ha inizio. Un ragazzo usa come base le sue emozioni e come testo tutto ciò che sente, e si sfoga in uno dei pochi posti in cui può stare in tranquillità. Ma lui non parla, canta senza voce perché gliel’hanno tolta, strappata, spezzata.

[su_expand more_text=”Leggi tutto” less_text=”Meno” height=”100″ link_color=”#ff8900″ link_style=”button” link_align=”center” more_icon=”icon: expand” less_icon=”icon: compress”]Quel ragazzo, triste, lo so, sono io. Ho una vita abbastanza semplice: vado a scuola, torno a casa, strimpello un po’ sulla chitarra, guardo qualche film, a volte studio… divento trite, poi felice e principalmente mangio. Insomma è la vita di un po’ tutti gli adolescenti…o forse no…
Non vi dirò il mio nome, ma vi dimostrerò che ognuno di voi mi conosce: sono quel ragazzo, quello seduto nell’angolo della tua classe; quello che non parla e solo quando lo fa, forse, ti accorgi della sua presenza. Posso essere seduto dietro, affianco, davanti a te, oppure dall’altro lato della classe, sta di fatto che tu non mi vedi, non mi senti, non mi ascolti.
Sono quello che tratti male, quello che ignori, quello di cui parli male alle spalle e non. Ecco perché io non ho voce, perché per colpa tua io, come tanti altri, ho avuto paura di parlare, quindi smettila: smetti di negarci la parola solo perché vuoi sentire più gente parlare di te, perché io ne ho abbastanza! Ne ho abbastanza di essere intrappolato in me stesso. Dicono di te che hai le palle di dire ciò che pensi alla gente, di insultarla, ma è questo che voi considerate coraggio? Qui l’unico che ha le palle sono io, o meglio lo sarò: inizierò a parlare e lo farò senza voce, perché anche io ho voglia di parlare e il diritto di essere ascoltato.
La prossima volta che mi insulterai, mi butterai i libri a terra o anche, semplicemente, mi ignorerai, io ti canterò una canzone, proprio così una canzone per farti capire che come un muto può cantare, un “campione” può perdere. E sarai tu a restare senza parole! Questi sono i miei pensieri mentre le risate, le prese in giro, le urla e le voci si fanno sempre più forti, talmente tanto da far fischiare le orecchie, talmente tanto da farmi gridare loro di smetterla. Ma non mi sentono, nessuno ti sente se urli in silenzio.
Gli altri? Se ne fregano, non mi sentono, o meglio non mi ascoltano. Ritengono sia più facile non sentire che non poter più parlare, come me. E tutto questo è solo colpa tua.
Ricordo ancora che una volta mi uscirono delle parole di bocca.
“Mi piacerebbe fare il cantante da grande” dissi. Risate, ecco quale fu la risposta che mi diedero… non mi avevano nemmeno mai ascoltato cantare… Fu lì che capii. Dovevo imparare ad amarmi, a fregarmene di che cosa pensa di me chi non mi conosce, dovevo amare il mio silenzio. E così ho fatto! Per questo vi ringrazio. È grazie a voi che sono ciò che vedete: un caso straordinario di un cantante senza parole, ma che ha molto da dire; un cantante che, durante i suoi concerti, crea cori di gente senza voce che è stanca di stare in silenzio…
Ringrazio voi, nemici senza faccia, che mi avete zittito, poiché avete dato un suono al silenzio. E soprattutto ringrazio me stesso, perché è grazie a me che sono su questo palco, parlandovi di niente seppur vi stia dicendo tutto.
Vi racconto la mia storia perché spero che qualche “sordo” si decida ad ascoltare le grida di un muto.
Vi racconto la mia storia perché sono sicuro che altra gente ne abbia una tutta sua di cui parlare, e spero che dimostrando che io sono riuscito a farmi ascoltare, capiscano che tutto è possibile con un po’ di amor proprio.
Vi racconto la mia storia al presente, semplicemente perché non parla del mio passato, bensì del mio presente e del mio futuro perché io ero, sono e sarò sempre Il Cantante Senza Voce.[/su_expand]

La ragazza che applaudiva nel modo sbagliato, di A. De Pasquale

[su_expand more_text=”Leggi tutto” less_text=”Meno” height=”90″ link_color=”#ff8900″ link_style=”button” link_align=”center” more_icon=”icon: expand” less_icon=”icon: compress”]Elisa ha ventun’anni, una laurea in pianoforte al conservatorio di Matera e un sogno nel cassetto: assistere ad un concerto del più grande pianista di tutti i tempi, Daniel Barenboim. Un sogno che sembrava quasi irrealizzabile, fino a che un giorno, curiosando sul sito del celebre pianista, scopre che per il duecento cinquantesimo anniversario della nascita di Ludwig Van Beethoven, Barenboim aveva deciso di eseguire di nuovo in pubblico le meravigliose trentadue sonate composte dal musicista. Otto serate, quattro sonate per ciascuna. Come lasciarsi sfuggire questa meravigliosa occasione? Tra l’altro, il Natale era quasi alle porte, sarebbe stato un perfetto auto-regalo. La città nella quale avrebbe suonato non era neanche troppo lontana: Berlino, in Germania. Alla faccia della città non troppo lontana! L’alternativa era Buenos Aires, in Argentina… No, meglio Berlino. Aprì subito un’altra scheda internet dal telefono e cercò un volo low cost. In queste occasioni, la tecnologia è davvero una santa cosa, perché in un attimo lo trovò: 50 euro andata e ritorno, senza scali. Perfetto. Lo prenotò immediatamente, per poi rendersi conto di non avere un posto dove dormire. Brava Elisa. Dai, magari per quei tre giorni un barbone potrebbe permetterti di dormire per strada con lui. Ma no, non diciamo sciocchezze. Chiamò la sua amica Laura, che lavorava in un’agenzia viaggi, e le chiese di trovarle un albergo a Berlino dal sette al dieci maggio. <<Che bella Berlino! Io ci sono stata l’anno scorso, e ti garantisco che è davvero suggestiva! Certo, due giorni sono un po’ pochi, ma è un buon inizio!>> disse Laura mentre cercava un hotel adatto per l’amica. <<Ecco qua, questo andrà benissimo. I soldi te li anticipo io se vuoi, e appena puoi passi a restituirmeli>>. Si, grazie Laura. Riattaccò e si cambiò per uscire, quando improvvisamente si ricordò di una cosa: l’aereo c’era, l’albergo pure… ma il biglietto per il concerto? Certo che sei proprio un disastro, Elisa! Accese in fretta il computer e digitò il sito di Daniel Barenboim. La data del concerto che aveva scelto era l’8 maggio. Barenboim avrebbe eseguito quattro splendide sonate, di cui due che conosceva molto bene: l’op. 30 n. 2, detta anche “Der Sturm” (“Tempesta”) el’op. 53, detta anche “Waldstein” (“Aurora”). Ovviamente anche le altre due le erano note, ma queste erano decisamente tra le sue preferite. Scelse un posto che le sembrava avesse una buona visuale e lo selezionò. Il costo del biglietto era di soli 25 euro, in quanto chi aveva meno di venticinque anni aveva una sconto. Meglio di così! In appena venti minuti, Elisa vide il suo sogno realizzarsi. Scoppiava di gioia! Quando andò da Laura per restituirle il denaro, era davvero su di giri per la contentezza, e la sua amica fu molto felice per lei.

Quattro mesi passarono piuttosto in fretta, e il tanto atteso giorno della partenza arrivò. Elisa chiamò un taxi e si recò all’aeroporto. Mancava circa un’ora e mezza alla partenza. Girovagò un per un po’ tra i negozi, e comprò un panino per tappare quel buco che aveva nello stomaco: capocollo, mozzarella e pomodori secchi. Sobrio insomma. Finalmente il Gate aprì, e i passeggeri del volo diretto a Berlino iniziarono ad imbarcarsi. Il posto di Elisa era al finestrino, e accanto a lei si sedette una ragazza, più o meno della sua età. Accennarono un timido sorriso per salutarsi, poi Elisa infilò le cuffiette nelle orecchie e fece partire la nona sinfonia di Beethoven. Era una delle sue preferite, così piena di potenza, di passione, di forza. Ogni volta che l’ascoltava le venivano i brividi. Un’altra che le piaceva tantissimo era la settima. In particolare, il secondo movimento lo trovava di una bellezza unica nel suo genere. L’aveva ascoltato per la prima volta qualche anno prima insieme alla sua insegnante di pianoforte, quando stava studiando la sonata op. 13 di Beethoven, detta anche “Patetica”, e l’insegnante, per farle comprendere meglio ciò che realmente voleva dire quel grande genio che è stato Beethoven, lo cercò su YouTube interpretato dal direttore d’orchestra Leonard Bernstein e lo fece partire. Le aveva detto che era uno dei suoi preferiti, e subito aveva capito il perché. Ascoltarlo era come essere cullati fra le stelle. Poi Beethoven ha la straordinaria capacità di toccare l’anima in maniera delicata ma efficace. Sa riparare ferite, farti sentire al sicuro. Può sembrare una cosa assurda, ma non lo è affatto, provare per credere. Terminata la nona sinfonia, Elisa scelse di far partire Schumann, per poi tornare a Beethoven, tanto mancava ancora un’oretta all’arrivo. E quando, finalmente, la voce parlante dell’aereo annunciò che stavano iniziando l’atterraggio, fu il momento di ascoltare quel secondo movimento della settima sinfonia, con le luci spente e gli occhi chiusi. Pian piano, dal finestrino, iniziarono ad intravedersi le luci della città. È bello viaggiare di sera, permette di vedere i luoghi illuminati da una prospettiva diversa dal solito. Ma Elisa era tutta assorta nel suo Beethoven, così tanto che sussultò quando l’aereo toccò terra. Prese il bagaglio a mano, lo zaino sulle spalle ed uscì. Fece un profondo respiro nell’aria un po’ pungente della sera: finalmente era a Berlino! Chiamò un taxi e chiese di essere portata al suo hotel, pensando piena di euforia all’esperienza che avrebbe vissuto.

L’indomani, Elisa approfittò della bella giornata per girare un po’ Berlino. Aveva tempo a sufficienza per visitare i luoghi di maggiore interesse della città e poi prepararsi per il concerto. Così si recò alla Porta di Brandeburgo, e subito dopo al Museo della Memoria, interamente dedicato al genocidio degli ebrei. Le storie raccontate erano davvero commoventi, e pensare che non erano favole, che erano accadute davvero, che milioni di persone erano veramente morte in maniere così atroci le faceva accapponare la pelle. Terminata la visita, continuò a passeggiare. Gli alberi in fiore che decoravano le strade erano bellissimi, e tutti quei palazzi sembravano quasi principeschi. Dopo aver mangiato qualcosa che le avrebbe permesso di rimanere sazia fino al mattino seguente, Elisa ritornò all’albergo per prepararsi ed andare al concerto. Decise di indossare un pantalone nero e una camicia in stile un po’ shakespeariano bianca. Niente di troppo sfarzoso, anche perché, su internet, aveva avuto modo di vedere che il pubblico, nella sala dove si sarebbe tenuto il concerto, era sempre vestito in modo informale, quindi aveva deciso di non essere troppo elegante, ma neanche di sembrare come appena uscita dal letto la domenica mattina. E un po’ di trucco ci stava proprio, quello che bastava a mettere in risalto i begli occhi verdi. Solo che non aveva fatto i conti col tempo. Le era sfuggito di mente che la Pierre Boulez Saal, il luogo dove si sarebbe tenuto il concerto, distava mezz’ora da dove si trovava, quindi quando arrivò erano le diciannove in punto, e riuscì ad entrare proprio per un soffio. Aveva il fiatone, per la corsa che aveva dovuto fare quando era scesa dal pullman e per il timore di non riuscire ad entrare che l’aveva assalita lungo la strada. Ma era arrivata appena in tempo, e proprio mentre si sedeva in un posto provvisorio che uno steward le aveva indicato, in attesa di riuscire ad andare a quello definitivo, entrò lui. Il grande, unico ed inimitabile Daniel Barenboim. Ecco perché lo steward non l’aveva fatta sedere al posto che aveva prenotato lei: non avrebbe fatto in tempo ad arrivarci! Ancora una volta, quella terribile sensazione di terrore che l’aveva accompagnata durante il tragitto, il pensiero di restare fuori e perdere tutta la prima parte del concerto, si fecero sentire, ma quando, dopo un grande applauso, Barenboim iniziò a suonare, quella paura scomparve e lasciò posto soltanto ad una grande ed immensa gioia. Elisa era talmente emozionata, che sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Decise di trattenersi solo perché, se avesse pianto, il trucco si sarebbe sciolto (e voleva mantenere almeno quello integro, dato che con la corsa le si erano scompigliati i capelli) e sarebbe sembrata davvero un’idiota. Ma era molto difficile resistere. Non le sembrava possibile trovarsi lì, a vedere il suo idolo suonare come lo aveva sempre visto fare nei video su internet. Tra l’altro, il posto provvisorio che le avevano dato si era rivelato a dir poco meraviglioso, poiché le permetteva di vedere Barenboim di profilo, e quindi di riuscire a vedere benissimo il movimento delle mani sulla tastiera del pianoforte. Passò tutta la prima parte del concerto in estasi, con gli occhi lucidi, un grande sorriso sulle labbra e le farfalle nello stomaco. Dopo le prime due sonate, ci fu un intervallo di quindici minuti, nel quale ebbe modo di riprendersi dallo stato di trance in cui era entrata e di andare a vedere da vicino il pianoforte di Barenboim. Stette ad osservarlo per un po’, contemplando con grande emozione lo strumento, e pensò che tutta quella gioia sarebbe stato davvero bello condividerla con qualcuno che l’avrebbe capita. Terminata la contemplazione, chiese aiuto ad uno steward per trovare il suo posto reale, e anche questa volta non si poteva proprio lamentare: aveva Barenboim frontalmente, e per di più,  il suo era il primo posto accanto al corridoio che lui utilizzava per entrare ed uscire dalla sala, cosa che le permise di vederlo decisamente da vicino. La pausa terminò, e Barenboim, un po’ stanco, rientrò in sala per eseguire le altre due sonate in programma. Questa volta Elisa non correva più il rischio di mettersi a piangere, sentiva soltanto dentro di sé una sensazione che, come scriveva il grande Dante Alighieri, “ ‘ntender no la può chi no la prova”. Credo che somigli a ciò che si prova guardando la persona che si ama. Ora non fraintendete, Elisa non è innamorata di Barenboim. È la musica che lei guarda con gli occhi innamorati e che le dà “una dolcezza al core” (sempre come scrive Dante). Quando anche l’ultima sonata, la Waldstein, terminò, tutti si alzarono in piedi per applaudire con grande fragore il pianista, che ringraziava con piccoli inchini. Fu proprio in quel momento che, chissà come, Elisa attirò l’attenzione di Barenboim. Sarà stato forse il suo enorme sorriso da Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie sulle labbra, fatto sta che, mentre si avviava verso il corridoio per uscire e poi rientrare in sala durante il lunghissimo applauso, Barenboim la guardò sorridendo, le si avvicinò, e con un gesto della mano le disse che stava applaudendo nel modo sbagliato. Le mani non devono essere dritte, come quando si imita una foca, ma inclinate, come a formare una X tra di loro. Elisa era incredula. Si girò verso l’anziana signora che le stava accanto, come per assicurarsi che lo avesse visto anche lei, che non lo aveva appena immaginato, e la signora ricambiò il suo sguardo con un sorriso che comprendeva tutta l’emozione della ragazza. Barenboim rientrò, ed Elisa, mantenendo ancora quel sorriso a 365 denti (no, non gradi, denti), continuava ad applaudire il pianista con enorme entusiasmo e anche fierezza, mostrando per bene le mani che ora applaudivano nel modo corretto, come lui le aveva indicato poco prima. Barenboim lo notò, le sorrise e le fece l’occhiolino. Ed Elisa adesso avrebbe voluto piangere di nuovo, tanta emozione proprio non riusciva a reggerla. Cercò di ricomporsi, anche perché ora aveva una missione da compiere: non sarebbe andata via da lì fino a quando non fosse riuscita ad avere un autografo da Daniel Barenboim. Chiese ad un’ hostess di sala come avrebbe potuto fare, e la ragazza le spiegò che poteva provare a scendere nelle sale del backstage e chiedere a qualcuno. Elisa la ringraziò, e si avviò verso la porta che le era appena stata indicata. Proprio lì davanti c’era uno steward che parlava con un ragazzo, e quando lei si avvicinò, capì che anche lui voleva la stessa cosa: un autografo. Ma lo steward disse che non poteva proprio farli entrare, però potevano provare ad aspettarlo ad una delle porte d’uscita secondaria del teatro.  Così fecero, e nel frattempo i due iniziarono a chiacchierare. Elisa quasi si stupì di sé stessa quando, in inglese, chiese al ragazzo di dove fosse, perché di solito non era mai lei a dare inizio ad una conversazione. Il ragazzo, sempre in inglese, le disse che era ungherese, di Budapest, e rifece a lei la stessa domanda. E da qui iniziarono a parlare: di Barenboim, del concerto, della musica, di libri, di progetti futuri… Non le sembrava vero di poter condividere così tanti interessi con un suo coetaneo! Solitamente veniva considerata un po’ strana, asociale, seriosa, con nessuno dei ragazzi e delle ragazze della sua età riusciva a parlare di questi argomenti. Erano fuori ad aspettare da un quarto d’ora ormai, e dato che non sembrava dovesse uscire nessuno per il momento, decisero di rientrare nella sala. Chiesero di nuovo se fosse possibile entrare nel backstage, e uno steward provò ad entrare nella stanza di Barenboim per parlargli. Ma non ci fu nulla da fare: Barenboim non voleva vedere nessuno. Elisa, allora, propose di dare allo steward il disco da far autografare, lei non sarebbe entrata, e anche se le sarebbe piaciuto parlargli e stringergli la mano, sarebbe stato, comunque, meglio di niente. Nei mesi precedenti aveva fantasticato tanto sul concerto, aveva immaginato tante volte come sarebbe stato incontrare di persona il grande pianista dopo averlo sentito suonare, perciò, se proprio non poteva incontrarlo, almeno un autografo glielo poteva concedere! Ma niente. La nostra Elisa si stava arrendendo, mentre con un leggero stupore e tanta gratitudine vedeva il ragazzo ungherese con cui aveva chiacchierato prima battersi per lei. Insisteva dicendo che: <<questa ragazza è venuta dall’Italia appositamente per lui, per sentire il suo concerto. Andrà via domani, per favore, fate avere l’autografo almeno a lei!>>. Elisa era quasi commossa, nessun ragazzo, prima di allora, era stato tanto premuroso nei suoi confronti. I due steward si mostrarono molto comprensivi, ma purtroppo Barenboim era stato chiaro: niente autografi per nessuno. No, non può davvero finire così, pensava Elisa afflitta, e fu allora che avvenne il miracolo. Una donna uscì dal backstage, e senza dilungarsi in chiacchiere domandò ai due ragazzi se fossero loro quelli che volevano l’autografo. Ovviamente i due risposero di si, e la donna avrebbe preso prima i vinili che il ragazzo ungherese aveva portato per l’autografo, se lui non li avesse ritratti dicendole che doveva prendere prima quelli della ragazza. Ancora una volta Elisa era stupita. Mai, ma proprio mai aveva trovato in vita sua un ragazzo tanto gentile. Lo ringraziò, e porse alla donna il cd di sonate di Beethoven interpretate da Barenboim che aveva portato. Questa li permise di entrare nel backstage e disse loro di restare fermi all’ingresso, mentre lei andava nel camerino del pianista. Fu emozionante sentirlo parlare con la donna, anche se la prima cosa che gli sentirono urlare appena entrò dentro fu: “Nein!”. Elisa e il ragazzo si guardarono atterriti e divertiti allo stesso tempo. Lei si torceva le mani sperando con tutto il cuore di riuscire nella sua impresa, e il ragazzo, di tanto in tanto, le accarezzava un braccio e la rassicurava. Era evidente che riusciva a comprendere la sua emozione. Fino all’ultimo istante sperarono che il pianista si affacciasse alla porta, anche solo per la curiosità di vedere chi, con così tanta insistenza, voleva a tutti i costi un suo autografo, ma ciò non avvenne. Peccato, pensò Elisa, anche perché era sicura che l’avrebbe riconosciuta, e voleva gridarglielo da là fuori: ”sono la ragazza che applaudiva nel modo sbagliato!”, ma pensò che fosse meglio evitare. Dopo circa cinque minuti, la donna uscì dalla stanza con i loro dischi autografati. Ce l’avevano fatta per davvero! Ringraziarono calorosamente quella santa e, vittoriosi, i due lasciarono la sala. Dopo aver chiacchierato ancora un po’, Elisa e il ragazzo ungherese si salutarono, e promisero che non avrebbero mai dimenticato quella che per loro era stata una piccola, emozionante avventura.  Chissà se un giorno si sarebbero incontrati di nuovo.

Tornata in hotel, Elisa era ancora su di giri, e più ripensava a ciò che le era appena accaduto più si sentiva esplodere di gioia! Avrebbe voluto urlare, saltare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu piangere e ridere allo stesso tempo. Quando, finalmente, si calmò, andò a letto, e si addormento col sorriso sulle labbra. Quella serata aveva lasciato davvero tante emozioni: sicuramente la nostra giovane Elisa le avrebbe portate con sé per tutta la vita.[/su_expand]

Un pomeriggio d’autunno, di F. Ciaccia

[su_expand more_text=”Leggi tutto” less_text=”Meno” height=”90″ link_color=”#ff8900″ link_style=”button” link_align=”center” more_icon=”icon: expand” less_icon=”icon: compress”]“A cosa pensi?”

“Non lo so”

E invece lo sapeva. E anche quel pomeriggio venne al culmine troppo in   fretta.

Sporse lo sguardo oltre la ringhiera d’acciaio, guardando l’orizzonte. Era un tardo pomeriggio d’autunno e nel cielo c’erano poche nuvole. Da tempo non usciva di casa, dall’angolo della sua camera dove dalla finestra guardava la città spegnersi nella notte e rianimarsi la mattina. I giorni passati inutilmente nel letto pesavano e iniziava a fare freddo. Una delle uniche persone a cui teneva, la sua cara amica, l’aveva trascinata fuori dal suo palazzo. Voleva farle fare un giro, magari passare da qualche negozio … ma ogni volta che passavano vicino ad una libreria lei entrava fiondandosi nel reparto delle novelle. Era il minimo che potesse fare pur di rallentare il tempo, cercando di non arrivare a quel punto della loro passeggiata pomeridiana. Ma in ogni modo lei cercasse di evitarlo ecco che si avvicinava. Ora fissava ancora un punto sull’orizzonte e iniziò a ricordarsi di quel tardo pomeriggio in cui lo aveva scorto. Appena posò gli occhi su di lui si accorse di non averlo mai visto prima ed era sicura che non fosse di quelle parti. Dal modo in cui era vestito sembrava uno di quei frontman di una band rock sulle quali si potevano scrivere delle fan fiction: giacca nera di pelle, maglietta del medesimo colore, occhiali da Sole, stivaletti e un paio di jeans sbiaditi. Non era troppo alto –ma sicuramente più di me- pensò lei quando lo vide. I capelli erano di un castano scuro e tirati indietro con del gel, alcuni ciuffi ricadevano sulla fronte con leggerezza. Era veramente bello. Appoggiato alla ringhiera con braccia conserte scrutava l’orizzonte, come se volesse guardare oltre. O almeno era ciò che pensò lei, visto che il ragazzo aveva gli occhiali da Sole e non sapeva dove in realtà stesse guardando. Guardandolo l’inevitabile domanda se avesse una ragazza o meno si fece strada nella sua testa. Ma qualcosa le disse che era meglio non saperlo … o forse non voleva saperlo lei. Ad un certo punto lo vide staccarsi dalla ringhiera e per un momento ebbe paura che potesse avvicinarsi; ma non lo fece. Mise una mano nella tasca destra dei jeans e tirò fuori un pacchetto di sigarette, per poi prenderne una. Dalla medesima tasca estrasse poi un accendino e lo accese. Portò la sigaretta alla bocca tenendola ferma fra le labbra e così facendo avvicinò l’accendino ad essa, cercando di riparare con la mano libera la piccola fiamma dal venticello che con il calare del Sole stava diventando più forte. Il cielo si stava tingendo di rosa e le nuvole con esso. Iniziava a fare freddo, così lei si sistemò meglio il cappotto sulle sue spalle, distogliendo lo sguardo dal ragazzo. Improvvisamente le venne voglia di fumare, prese l’accendino dalla tasca del cappotto e lo tirò fuori, quando si accorse di aver dimenticato a casa il pacchetto. Con riluttanza guardò con il mare rigirandosi l’accendino fra le mani. 

“Ne vuoi una?”

Voltò la testa e lui era lì. La stava guardando e in una mano teneva aperto il suo pacchetto di sigarette, facendone sporgere una. Per un attimo lei esitò, ma poi la prese. 

“Grazie”

Lui non disse niente ma le sorrise debolmente. Lei non osò dire nulla a conoscenza del fatto che il ragazzo si fosse sicuramente reso conto che lo stava osservando.

“Si nota che non sono di qui?”, chiese lui voltandosi a guardare il mare insieme a lei. 

“Come?”

“Mi stavi guardando. Si nota che non sono di questi parti?”

Era sicura che quella domanda fosse solo uno scusante per avviare la conversazione, ma era comunque sollevata che l’avesse pensata così. 

“Beh non ti ho mai visto quindi … direi di si”, e con nonchalance iniziò a fumare. 



La sua amica la guardò cercando una risposta nel suo sguardo, ma non trovò nulla. Sapeva però che era per qualcuno.

“E’ una persona?”

“No”

“E invece si”

“Se sei così sicura della tua risposta allora perché me lo chiedi?”

“Volevo che me lo dicessi tu”

Ci fu un attimo di silenzio e poi l’amica parlò ancora. 

“Sai il suo nome almeno?”

“No … non me l’ha detto” e notando il suo sguardo continuò “… e non gliel’ho chiesto. Nè gli ho detto il mio”

Detto questo si voltò guardando nello stesso punto in cui lo aveva visto per  la prima volta, immaginando che per un momento fosse realmente lì. Una forte corrente improvvisamente le scompigliò i capelli facendo volar via il suo pensiero ancora una volta a quel pomeriggio. Mentre entrambi in silenzio guardavano ancora il mare si sentiva il fruscio delle foglie e lei con la testa appoggiata su un palmo della mano, sigaretta nell’altra e gomito sull’acciaio per la prima volta sentì che qualcosa andava bene e sperò che quel momento non finisse mai. Poi si voltò e lui ugualmente, fermandosi a guardarla, prendendo l’ultima boccata di fumo, per  poi gettarlo fuori con un sospiro. Gli angoli della sua bocca si piegarono all’insù, si voltò lentamente di spalle a lei e iniziò ad allontanarsi insieme alla scia bianca che usciva dalla sigaretta, lasciando in quel posto solo una memoria distante. 

E dopo non si affrettò a cercarlo, sapendo che un giorno … nella novella di una libreria, nel ritmo di una canzone, in un altro pomeriggio d’autunno, in un’altra sigaretta … lo avrebbe ritrovato…. o forse sarebbe tornato lui stesso![/su_expand]

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