Essere fragili vuol dire essere vivi. Sull’overthinking
Shameless è la nuova rubrica de La Fenice dedicata ad un diario di racconti sulle
Shameless è la nuova rubrica de La Fenice dedicata ad un diario di racconti sulle paure e sulle insicurezze dell’età adolescenziale. Condividere le proprie fragilità mettendole nero su bianco significa anche iniziare ad accettarle e – forse – a guarirle.
Di seguito il primo articolo della rubrica.
Vi siete mai chiesti come si chiami quella sensazione di non andare bene per qualcuno? Quel timore di non essere abbastanza? La paura, quel sentimento che vi soffoca e vi stringe lo stomaco perché pensate che quella persona, così importante per voi, prima o poi se ne andrà? Di più: pensate che accadrà proprio per colpa vostra, non vi sentite mai abbastanza per lei, pensate di essere piccoli, minuti, schiavi del timore che un giorno tutti potrebbero stancarsi di voi.
Vi siete mai chiesti come si chiami quella sensazione che vi blocca e che vi frena dal voler fare qualcosa che invece tanto desiderereste? Siete lì, in bilico tra due scelte, e la maggior parte delle volte scegliete la strada più facile. “Non lo faccio tanto non ci sarei riuscito”, “è inutile tanto non ne sono capace, non sono il tipo, non sono abbastanza”. Ma cos’è realmente l’essere abbastanza nel mondo di oggi? Perché ci precludiamo i nostri sogni, solo per paura di non farcela?
Esiste una parola inglese, che non ha propriamente un corrispettivo italiano: in quell’istante della nostra vita, diventiamo tutti degli “overthinker”, che letteralmente significa “una persona che pensa troppo”. In senso assoluto, l’overthinking non è necessariamente negativo, ma lo diventa quando i pensieri si accumulano e si affollano nella nostra mente, diventando un ostacolo. Iniziamo a non goderci più i bei momenti, non ci sentiamo mai soddisfatti, mai felici.
L’overthinking deriva dalla paura e porta alla paura stessa. È un circolo che non ha una fine, un continuo flusso di ansie e di problemi, talvolta inesistenti, che ci creiamo da soli; o meglio, non ha una fine fin quando non ci sentiamo pronti a parlarne con qualcuno, fin quando non siamo noi a porre un punto.
Per chi non ama gli anglicismi, c’è anche un termine classico per dire tutto ciò: atelophobia, che deriva dal greco atelès – “imperfetto, incompleto” – e phóbos, cioè “paura”. Si tratta, dunque, del timore di non sentirsi all’altezza – per una persona, per il mondo, o anche semplicemente per se stessi. Essa pone le proprie radici proprio nelle nostre insicurezze. Porta a sentirsi imperfetti, scontenti, delusi da se stessi nei più vari ambiti: il proprio aspetto fisico, le relazioni interpersonali, la scuola, il lavoro… Ci colpevolizziamo per aver commesso un errore e non ci accettiamo per questo. Anzi, talvolta pensiamo che sia una colpa, essere come siamo. Pensiamo di essere noi il problema. Non ascoltiamo il nostro cuore perché non ci consideriamo all’altezza. Non inseguiamo i nostri sogni per paura di non farcela, roviniamo i rapporti quasi per autodifesa, come se già sapessimo e ci preparassimo a fallire, a stare male, alla fine di un qualcosa. Sentiamo di dover corrispondere alle aspettative di qualcuno, mentre non ci rendiamo conto che la persona a cui dovremmo “bastare”, che non dovremmo rischiare di “perdere”, siamo innanzitutto noi stessi.
L’uomo di oggi è alla continua ricerca della perfezione, soprattutto in fase adolescenziale. Non per altro diventiamo spesso overthinker proprio nella fase di crescita, la fase in cui impariamo a conoscerci e in cui ci sentiamo spesso persi. L’adolescenza è il periodo in cui crediamo che l’essere diversi dagli altri sia sinonimo di essere sbagliati.
Eppure, forse, l’errore sta proprio nella ricerca della perfezione.
Se una cosa nuova, che potrebbe essere bellissima, ci spaventa ed è rischiosa, noi spesso decidiamo di evitarla. Cerchiamo di essere più forti facendoci del male, scegliendo la strada più semplice per dimenticare, per andare avanti, per paura di restare delusi. Ed invece il bello della nostra anima risiede proprio nella nostra fragilità.
Alessandro D’Avenia, con il suo libro intitolato “L’arte di essere fragili”, ci propone proprio la paura di non essere all’altezza, causata dalla nostra concezione di perfezione e di questo desiderio irraggiungibile. L’autore, per fare questo, intrattiene una sorta di dialogo con Giacomo Leopardi, ponendogli domande e provando a rispondere ad alcuni interrogativi del poeta, che corrispondono anche agli interrogativi dei giovani di oggi.
Forse la maggiore analogia, tra la nostra epoca e quella di Leopardi, è proprio la paura. Abbiamo paura della solitudine, abbiamo paura dei cambiamenti, abbiamo paura di sbagliare.
Leopardi era alla ricerca di un infinito, della libertà, della felicità: noi, come lui, non ci rendiamo conto che, per trovare il nostro infinito, dobbiamo prima imparare a conoscere e soprattutto accettare noi stessi.
Non nascondiamo le nostre ombre, piuttosto accettiamole, impariamo a conoscerle, impariamo a migliorarle. Non diventiamo overthinker a causa di esse. Essere fragili vuol dire essere vivi. Accettiamoci ed accettiamo gli altri.
È necessario accettare anche le proprie fragilità per sentirsi pienamente se stessi